Cupi tra Storia e Leggenda
Quasi sicuramente, dove oggi sorge Cupi, una volta doveva esserci un accampamento romano. Tutte le caratteristiche del posto lo fanno supporre; infatti un luogo pianeggiante, sopraelevato, difficile da raggiungere quindi facile da difendere perchè circondato da ogni parte da dirupi scoscesi e declivi impervi, con una sola via di accesso dal Iato sud e che costituiva l'unico collegamento alle più grandi arterie romane che facilitavano lo spostamento delle milizie sia verso l'Adriatico che verso la stessa Roma. Ancora oggi, questa strada, al cui tracciato è stata portata una sola modifica nei pressi di Macereto, viene chiamata "la Strada Romana". Le origini dunque, del nostro Paese si perdono nella notte dei tempi: sulle rovine dell'accampamento saranno sorte le prime capanne e ai soldati saranno succeduti pastori e agricoltori; ma sicuramente i primi avranno avuto ragione dei secondi, perchè la vocazione di chi abitò e abita da queste parti, è sempre stata ed è la pastorizia. La Villa di Cupi, così come oggi ci appare, si viene formando nel Medio Evo, con case semplici e solide, allineate con un programma urbanistico rigoroso, lungo un decumano svolgentesi sul poggio che sovrasta la valle del Serrone situato a metà costa del monte Tranquilla. Inizialmente faceva parte del dominio dei conti Magalotti di Fiastra che erano in continui contrasti con i feudatari di Nocria. Quando successivamente i Magalotti vendettero a Visso questo loro possedimento, anche nel territorio di Cupi seguirono contrasti e litigi, che si sono protratti fino ai nostri giorni, con le comunità di Ussita e Appennino, per questioni di confini e servitù. Essendo Cupi terra di confine tra Visso e Fiordimonte (Camerino) i suoi abitanti, molto spesso, dovettero ricorrere alle armi per difendere i loro interessi, il loro territorio, i confini dei loro pascoli, e lo fecero sempre con coraggio e spirito corporativo. Nell'archivio del Comune di Visso, sono molti i documenti che fanno riferimento alle forti liti tra i Cupatti e i loro vicini. Ora, anche se qualche modernizzazione è arrivata quassù, Cupi ha mantenuto intatta la sua fisionomia e le sue particolari qualità di paese di montagna, i cui abitanti, dotati di carattere tenace e schivo, hanno conservato le centenarie tradizioni, dedicandosi tuttora alla pastorizia e producendo quel formaggio pecorino vissano tanto apprezzato e che purtroppo va scomparendo.
La Villa di Cupi
Con il tempo "lu pagese de Macereto" si ridusse a pochissime case, cosicché la sede della Guaita, alla fine del 1400, fu trasferita nella vicina Villa di Cupi, posta in felice e panoramica posizione, sul poggio che sovrasta la valle del Serrone, dove si estendono i comuni di Fiordimonte e di Pievebovigliana di fronte a Camerino, che si staglia in lontananza su un colle pittoresco con i suoi campanili, le sue torri e i suoi severi palazzi gravidi di storia. La Villa di Cupi si venne formando, nel medioevo, con case semplici e solide, allineate, con programma urbanistico rigoroso, lungo un "cardo" svolgentesi sul predetto poggio sito a metà costa del monte Tranquilla, dominato dal castello di Macereto e acquisito dal, Comune di Visso con la vendita da parte dei Feudatari dell'Alto Nera di quanto competeva loro nel detto castello e nel suo distretto. Anche qui gli incerti confini e servitù formentarono lotte e scaramucce con Appennino, Acquacanina, Fiordimonte e, nei pascoli di alta montagna insieme ad Ussita, con Montemonaco, Montefortino ed Amandola, alle quali interveniva attivamente anche il Comune di Visso. La Villa di Cupi ha mantenuto intatta la sua fisionomia e le sue particolari qualità di paese di alta montagna, i cui abitanti, dotati di carattere tenace e schivo, hanno conservato le centenarie tradizioni, dedicandosi sempre, come tutt'ora, alla pastorizia e producendo la lana e quel formaggio pecorino vissano tanto apprezzato e che, purtroppo, va scomparendo.
Museo della Pastorizia
Nata nell'estate 1996 dalla volontà e dal desiderio di un gruppo di giovani per non lasciar morire il loro paese avviato apparentemente sul viale del tramonto, ma concretamente ancora ricco di potenzialità e soprattutto di un grosso patrimonio naturale. Essi hanno compreso che i veri valori di ogni luogo sono la storia e le tradizioni, che nel tempo contribuiscono a renderlo unico, quindi il loro desiderio i non lasciar cadere nell'oblio il ricordo dei propri antenati, che ricchi solo di volontà' e tanta fede, hanno affrontato giorno dopo giorno la povertà', la fame, le intemperie e gli umori della montagna, parte fondamentale della vita di ogni "cupatto" e l'allontanamento forzato dai luoghi natii, pur non perdendo mai l'amore per il loro paese e soprattutto per la vita. E' questo che sostanzialmente ha portato i volontari a raccogliere informazioni, testimonianze e in modo particolare oggetti e attrezzature ormai in disuso, ma un tempo fondamentali nella vita dei pastori, dando vita a quello che oggi e' il "MUSEO DELLA PASTORIZIA". E' stato l'entusiasmo dei molti visitatori e la conseguente presa di coscienza del desiderio di non dimenticare le proprie origini, parte integrante della personalità' di ogni individuo, che hanno spinto questi giovani ad andare avanti, proseguendo e migliorando la loro iniziativa.
Cupi e la Pastorizia
Il mestiere più antico del mondo, il primo lavoro che l'uomo esercitò dopo la sua comparsa sulla terra, è lo stesso che i Cupatti da sempre hanno praticato e che ancora oggi, con poche modifiche, continuano a praticare: la pastorizia. Fino ad un passato, non poi tanto remoto, da queste parti non vi furono mai alternative; appena il ragazzo era in grado di badare a se stesso, e questo avveniva molto presto (9-10 anni), doveva pure essere in grado di badare alle pecore. Se aveva la fortuna di essere figlio di una famiglia più agiata, entrava a far parte dell'azienda paterna, ma se era di condizioni più povere, finiva a fare il "Biscino" alle dipendenze di qualche masseria, dove il suo lavoro era molte volte pagato con quello che riusciva "a tirare con i denti" cioè a mangiare. Comunque i cupatti, sia che fossero pastori-padroni o pastori a servizio, sono stati sempre orgogliosi del loro lavoro, che hanno sempre esercitato con amore e attaccamento, tramandandone di padre in figlio le tradizioni fino ai nostri giorni. Essi hanno sempre avuto particolari attenzioni e interessi per la poesia, la letteratura cavalleresca e la cultura in generale: le loro scuole erano le distese della Maremma e le solitudini dei Sibillini, i maestri i vecchi pastori che recitavano e reclamavano i versi dell'Orlando Innamorato o della Gerusalemme Liberata. La prova di esame poi si sosteneva nelle disfide di canto che costituivano il momento culminante delle fiere paesane e delle feste religiose che capitavano sempre nel periodo estivo. Un altro avvenimento importante che si faceva capitare in estate, per lo più in Agosto, era la celebrazione dei matrimoni. I pastori di Cupi hanno da sempre esercitata la transumanza; il gregge ha sempre avuto delle esigenze prioritarie, alle quali non si poteva in alcun modo derogare perchè vi erano impegni precisi e scadenze fisse che andavano assolutamente rispettate. Il giovane pastore che aveva deciso di metter su famiglia, non solo non poteva abbandonar le sue pecore per un lungo periodo di tempo, ma quando questo avveniva, doveva farlo in quei giorni dell'anno in cui la sua presenza era meno impellente; cioè nei mesi estivi, quando le greggi erano ai pascoli alti e la mungitura era finita e la "sprenatura" non ancora iniziata. Tutta la festa del matrimonio si esauriva in paese: il prete, gli invitati (quasi sempre molto numerosi), il pranzo... Il viaggio di nozze non si usava; non c'era né tempo né denaro; ma poi lo sposo di viaggi ne aveva fatti e ne doveva fare ancora tanti!.... C'era però la "serenata" che gli amici più spregiudicati andavano a cantare sotto la finestra degli sposi, poco dopo che essi si erano ritirati in intimità: potrà, ora, sembrare uno scherzo di dubbio gusto, ma sicuramente non c'era cattiveria. La transumanza avveniva in Ottobre, si andava a piedi e durava otto-dieci giorni. In quei giorni non si dormiva, era un procedere lento, continuo, con il gregge, i cani, il bagaglione che seguiva o procedeva la lunga litania di pecore, alla guida del "carriolo" tirato da muli e che trasportava i "fardelli", cioè l'equipaggiamento di tutti i pastori. Quando finalmente, insonnoliti e con tanta stanchezza addosso, si arrivava nella maremma, ad attenderli trovavano lo stazzo per le pecore e la capanna di ginestre per gli uomini, con la "fornacetta" in mezzo e le "rapazzole" ai lati; non era certamente un luogo ideale per riposarsi, ma ci si poteva finalmente togliere le scarpe e schiacciare un sonno ristoratore. Questa poi era la casa comune, che li avrebbe ospitati fino alla prossima primavera, quando avrebbero ripercorso la stessa strada a ritroso, ma questa volta con più entusiasmo: si andava verso casa. Il viaggio di ritorno si faceva con le stesse modalità di quello dell'andata. Arrivati a Cupi però era diverso: ora si poteva riposare in un letto vero, e soprattutto c'era un'accoglienza migliore: le mogli che, per nove mesi, avevano atteso i mariti e che per loro avevano tenuto in serbo le parti migliori del maiale ucciso in inverno, per una volta tanto non badavano a fare economia e nella sua famiglia, magari con qualche figlio in più nato da poco, il pastore si sentiva un vero signore. Poi si usciva, si faceva una capatina all'osteria dove si ascoltavano e si facevano i commenti su chi aveva riportato il capitale (gregge) in migliori condizioni, e si ripartiva per la montagna. La solitudine della maremma, veniva sostituita con quella dei monti, ma non era uguale: di lassù, se il vento spirava dalla parte giusta, si poteva ascoltare il suono della campana che scandendo la giornata di chi era in paese, era pure un invito infido e tentatore a scendere, magari per qualche ora, magari per una notte e i pastori dovevano concedersela qualche scappatella se un poeta-pastore ha cosi sintetizzato la vita che avrebbe dovuto fare il buon Pecoraro: "L'estate lontan dal suono della campana, l'inverno dove risuona la marina". Ora le cose sono cambiate anche a Cupi: si trasloca con gli autotreni, si va in montagna in macchina, la famiglia segue il pastore che non opera più in grandi aziende, ma è diventato egli stesso imprenditore e manager, ai figli viene impartita un'istruzione adeguata, le abitazioni sono arredate con tutti i moderni conforti. Ma chi pratica la pastorizia, ne ha conservato l'orgoglio di sempre, perché sa di esercitare un lavoro nobile e aristocratico, antico quanto il Mondo.
Santa Pudenziana - (Patrona di Cupi)
Il suo nome abbinato a quello di s. Prassede martire romana sua sorella, figura negli itinerari del sec. VII dai quali risulta che esse erano venerate dai pellegrini nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria. Inoltre sono menzionate nel "Kalendarium Vaticanum" della basilica di s. Pietro del XII secolo, Pudenziana al 19 maggio e Prassede sua sorella il 21 luglio. La loro vita è raccontata nei 'Leggendari' o 'Passionari' romani, essi furono composti intorno al V-VI sec. ad uso dei chierici e dei monaci per fornire loro le preghiere per gli Uffici religiosi, sia per edificanti e pie letture; i 'Passionari' racconti delle vite e delle sofferenze dei santi martiri, si diffusero largamente negli ambienti religiosi dell'Alto e Basso Medioevo. Le 'Gesta' delle due sante martiri, raccontano, che Pastore, prete di Roma, scrive a Timoteo discepolo di s. Paolo, che Pudente 'amico degli Apostoli', dopo la morte dei suoi genitori e della moglie Savinella, aveva trasformato la sua casa in una chiesa con l'aiuto dello stesso Pastore. Poi Pudente muore lasciando quattro figli, due maschi Timoteo e Novato e due femmine Pudenziana e Prassede. Le due donne con l'accordo del prete Pastore e del papa Pio I (140-155), costruiscono un battistero nella chiesa fondata dal padre, convertendo e amministrando il battesimo ai numerosi domestici e a molti pagani, il papa visita spesso la chiesa (titulus) e i fedeli, celebrando la Messa per le loro intenzioni. Pudenziana (Potentiana) muore all'età di sedici anni, forse martire e viene sepolta presso il padre Pudente, nel cimitero di Priscilla, sulla via Salaria. Dopo un certo tempo, anche il fratello Novato si ammala e prima di morire dona i suoi beni a Prassede, a Pastore e al papa Pio I. Il racconto prosegue con una lettera inviata dai tre suddetti all'altro fratello Timoteo, per chiedergli di approvare la donazione ricevuta. Timoteo, che evidentemente era lontano, risponde affermativamente, lasciandoli liberi di usare i beni di famiglia. Allora Prassede chiede al papa Pio I, di edificare una chiesa nelle terme di Novato (evidentemente di sua proprietà) 'in vico Patricius', il papa acconsente intitolandola alla beata vergine Pudenziana (Potentiana), inoltre erige un'altra chiesa 'in vico Lateranus' intitolandola alla beata vergine Prassede, probabilmente una santa omonima. Due anni dopo scoppia un'altra persecuzione e Prassede nasconde nella sua chiesa (titulus) molti cristiani; l'imperatore Antonino Pio (138-161) informato, ne arresta e condanna a morte molti di loro, compreso il prete Semetrius; Prassede durante la notte provvede alla loro sepoltura nel cimitero di Priscilla, ma molto addolorata per questi eventi, ottiene di morire martire anche lei qualche giorno dopo. Il prete Pastore seppellisce anche lei vicino al padre Pudente e alla sorella Pudenziana. Il racconto delle 'Gesta' delle due sante è fantasioso, opera senz'altro di un monaco o pio chierico del V-VI secolo. La loro esistenza comunque è certa, perché esse sono menzionate in molti antichi codici. Il 20 gennaio 817 il papa Pasquale I fece trasferire i corpi di 2300 martiri dalle catacombe o cimiteri, all'interno della città, per preservarli dalle devastazioni e sacrilegi già verificatesi durante le invasioni dei Longobardi; le reliquie furono distribuite nelle varie chiese di Roma. Quelle di s. Pudenziana nella chiesa di s. Pudente suo padre e quelle di Prassede nella chiesa di s. Prassede che secondo alcuni studiosi non erano la stessa persona. Il corpo di s. Pudenziana (Potentiana) venne traslato sia nel 1586, che nel 1710, quando fu restaurata la chiesa poi a lei intitolata, sotto l'altare maggiore; dal IV secolo fino a tutto il VI secolo la chiesa portava il nome del fondatore Pudente (Ecclesiae Pudentiana); dal VII secolo la chiesa cambiò prima il nome in "Ecclesiae S. Potentianae" e poi dal 1600 ad oggi esclusivamente in chiesa di S. Pudenziana, trasferendo così l'intitolazione dal nome del padre a quella della figlia. Per quanto riguarda le reliquie di s. Prassede, anch'esse riposano nella chiesa che porta il suo nome, insieme ad alcune della sorella e di altri martiri, raccolte in quattro antichi sarcofagi nella cripta. La celebrazione liturgica è rimasta divisa: s. Prassede al 21 luglio e s. Pudenziana il 19 maggio. Una delle più antiche rappresentazioni delle due sante sorelle è un affresco del IX secolo ritrovato nel 1891 nella chiesa Pudenziana, che le raffigura insieme a s. Pietro, inoltre le si vede insieme alla Madonna in una pittura murale in fondo alla cripta della chiesa di santa Prassede, come pure nel grandioso mosaico della conca absidale della stessa chiesa, donato da papa Pasquale I. Ad ogni modo le due chiese sono un concentrato di opere d'arte a cui si sono dedicati artisti di ogni tempo, per rendere omaggio alle due sante sorelle romane, testimoni dell'eroicità dei cristiani dei primi secoli. Essendo Cupi un luogo di pastori transumanti che rientravano al paese nei primi di giugno, per praticità la celebrazione liturgica di Santa Pudenziana fu spostata dal 19 maggio al 19 giugno.
Materiale di riferimento: Santa Pudenziana vergine e martire
BIBLIOGRAFIA Piero Bargellini, Mille Santi del giorno, Vallecchi editore, 1977
Chiesa del SS. Redentore e Santa Maria
La Villa di Cupi, così come oggi ci appare, si viene formando nel Medio Evo, con case semplici e solide, allineate con un programma urbanistico rigoroso, lungo un decumano svolgentesi sul poggio che sovrasta la valle del Serrone situato a metà costa del monte Tranquilla. Il paese, nel tempo, venne dotato di cinque chiese: S. Croce (la più antica), S. Pietro, S.Paolo, S. Caterina e la parrocchiale del 1200, l'unica rimasta. Questa chiesa presenta un esterno austero e armonico nella essenzialità lineare dell'architettura romanica con un massiccio campanile a forma di torre quadrata non molto elevata. L'interno semplice e disadorno, è costruito su tre archi ogivi in conci, che si dilatano anche nella parte inferiore delle pareti. Anticamente era dotata di sette altari che l'appesantivano e occupavano troppo spazio. Negli anni settanta, tutto l'interno è stato ristrutturato, i vecchi altari sono stati demoliti, e se ne è costruito uno nuovo al centro della navata, strutturato in pietra, che ben si intona all'ambiente e conferisce al tutto semplicità ed eleganza. In alto, sul lato sinistro, affiorano due affreschi, da attribuirsi agli Angelucci di Mevale, di cui uno restaurato dell'Agosto del 1995 e l'altro non ancora completamente riscoperto dall'intonaco applicatovi nel '700. Il dipinto presente sopra l'altare minore riportato alla luce, mostra le strutture di un tempio dove sono raffigurati i profeti Isaia e Geremia con al centro il Bambino e il Salvatori Mundi; in basso al centro si nota una ampia lacuna che fa supporre l'apertura di una porta in seguito tamponata. L'altro dipinto rappresenta la Madonna del Rosario contornata dagli episodi dei Misteri. Sul lato destro dell'abside fa bella mostra di sè un grande Crocifisso scolpito in legno, mistico e robustamente espressivo, del sec. XVII, fatto restaurare nell'Agosto del 1994. A questa immagine, la gente di Cupi è particolarmente devota ed ogni anno, la domenica successiva al ferragosto, ne celebra la festa. Per l'occasione viene rimosso dalla sua sede abituale, esposto alla venerazione dei fedeli e accompagnato in una caratteristica processione che si snoda per la via centrale del paese, con camici e stendardi secondo una tradizione molto antica. Il restauro del Crocifisso e quello dell'affresco sono stati realizzati grazie alla partecipazione della popolazione di Cupi che con le offerte ha dimostrato di tenere molto alla chiesa e a ciò che di essa è parte.